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INCHIOSTRI STORICI E STRUMENTI SCRITTORI


 
    
   
Indice
1. Inchiostro antico

  L’inchiostro del mondo greco-romano, nell’antichità classi- ca e post-classica, serviva per iscrivere su papiro; esso era generalmente nero, donde il nome latino ATRAMENTVM, cioè liquido o colore nero. Per pratiche scrittorie particolari potevano anche essere usati altri colori, che erano però più propriamente pigmenti dipintorî opportunamente diluiti.
  Il nero per iscrivere, ossia ATRAMENTVM·LIBRARIVM o ATRAMENTVM·SCRIPTORIVM, si ricavava generalmen- te dalla fuliggine prodotta dalla combustione di resina di coni- fere, oppure da materiali carbonizzati e sottilmente macinati, come, ad esempio, la feccia del vino. La polvere nera e sotti- lissima, così ottenuta, era mescolata ad un collante, ossia gomma per gli inchiostri, colla per le vernici; la gomma aveva l’ufficio di tenere il pigmento in sospensione nel liquido diluente e di fissarlo sul supporto papiraceo dopo la scrittura. L’inchiostro si presentava allo stato solido; quando si doveva usare per iscrivere, si stemperava con acqua o aceto; la dilui- zione doveva essere effettuata in modo che si potesse assicu- rare il giusto scorrimento dell’inchiostro dal calamo e la giu- sta intensità di colore dello scritto sul supporto scrittorio: infatti se l’impasto veniva scarsamente diluito, non si riusciva a scrivere perché il liquido rimaneva attaccato al calamo; se veniva diluito in eccesso, l’inchiostro sgocciolava dal calamo ed inoltre lo scritto risultava troppo sbiadito.
  Le principali testimonianze sulla preparazione dell’inchio- stro sono di Vitruvio nel DE·ARCHITECTVRA, scritto sotto Augusto nell’età classica, di Plinio il Vecchio nella NATV- RALIS·HISTORIA del periodo post-classico, e di Dioscoride, del periodo post-classico, nel quinto libro della materia medi- cinale; quest’ultimo indica l’unica ricetta che ci è pervenuta.



 
    
   
  Vitruvio, DE·ARCHITECTVRA VII X.:
  «[...] Si costruisca una stanza con tetto a volta, simile ad un laconico, rivestendone le pareti di un intonaco che va accu- ratamente levigato. Sul davanti, comunicante con essa, deve sorgere una piccola fornace, la cui bocca va diligentemente chiusa, in modo che la fiamma non possa disperdersi all’e- sterno. Nella fornace si introduce resina; quando questa bru- cia, per l’intenso calore prodotto dal fuoco, produce un denso fumo che, penetrando attraverso gli sfiatatoî nel laconico, si deposita sui muri e sulla volta. La fuliggine, che se ne ricava, viene adoperata in parte, mista a gomma, per fabbricare in- chiostro, ed in parte, mista a colla, nella decorazione parieta- le. Se non si può disporre di nerofumo già pronto, ci si può sbrigativamente procurare il colore nero con il seguente pro- cedimento: si bruciano sarmenti o schegge di legno resinoso e se ne spegne la brace, macinando il carbone che se ne ot- tiene, insieme a colla, si avrà una tinta nera di discreta quali- tà. Si può anche seccare e bruciare nella fornace la feccia di vino e poi mescolarla con colla; il colore che se ne ricava, una volta impiegato negli intonachi, produrrà un delicatissimo ef- fetto e, quanto migliore sarà la qualità del vino, tanto più raffi- nato sarà il tono del colore che si fabbrica dalla sua feccia, fino a somigliare più all’indaco che al nero.»
  Plinio il Vecchio, NAT·HISTORIA XXXV 41. 42. 43.:
  «41 Anche l’ATRAMENTVM sarà da collocare tra i colori artificiali [...] Si prepara infatti anche dalla fuliggine in molti modi, bruciando resina o pece; perciò hanno costruito anche officine che non lasciassero andar via quel fumo. L’ATRA- MENTVM più pregiato si ricava con lo stesso procedimento dal legno di pino. Lo si falsifica con fuliggine di fornaci e bagni e lo si utilizza per iscrivere sui VOLVMINA.
  42 Ci sono quelli che fanno cuocere bene la feccia del vino  


essiccata ed affermano che se la feccia è quella di un buon vi- no, il nero che ne deriva presenta l’aspetto dell’indaco. Poli- gnoto e Micone, famosissimi pittori, ottennero ad Atene lo ATRAMENTVM da vinacce, e lo chiamarono TRYGINON. Apelle ebbe l’idea di fabbricare dall’avorio bruciato quel colo- re che viene chiamato Elefantino.
  43 Anche l’indaco viene portato dall’India; ma non sono ancora riuscito ad appurare come si produca. Lo si prepara anche presso i tintori da un fiore nero, che rimane attaccato alle caldaie di bronzo. Si ottiene anche da legno di pino bru- ciato e da carboni pestati nel mortaio. Quest’ultima specie as- somiglia straordinariamente al nero di seppia; ma non si rica- va dalla seppia. Ogni genere di nero, dunque, viene portato alla perfezione dal sole, quello usato per iscrivere misto a gomma, quello che serve alla pittura murale misto a colla. Quello che è stato allungato con aceto si cancella con diffi- coltà.»
  Le seguenti testimonianze di Dioscoride sono tratte da “I Discorsi di M· PIETRO ANDREA MATTHIOLI Medico Sanese, NE I SEI LIBRI DELLA MATERIA MEDICINALE DI PEDACIO DIOSCORIDE ANAZARBEO. In Vinegia, 1557. Nel quinto lib. di Dioscoride.”:
  «Della Fuligine pittoria.    Cap. CXXXIX.
  SVOLSI ricogliere la Fuligine, che usano i dipintori, dalle fornaci di uetri: percioche à questa si dà il primo luogo. Ha uirtù ualorosa di costrignere, & di corrodere [...]
  Dell’Atramento librario.    Cap. CXL.
  LO ATRAMENTO, con il quale scriuiamo, si ricoglie dalla fuligine condensata dal fumo della teda. Mettonsi in ogni libra di gomma tre once di fuligine di teda. Fassi anchora della fu- ligine delle ragie, & della fuligine pittoria detta di sopra [...]»   La gomma (lat. class. CVMMI, COMMI, GVMMI, n. in-  


 
    
   
decl., e CVMMIS, COMMIS, GVMMIS, IS f.), che entra an- che in molte composizioni di inchiostri attuali, deriva da un liquore che esce da screpolature di alcune piante: ciliegi, pes- chi, mandorli, prugni, ecc.; all’aria si solidifica fino a risultare una massa solida, insipida ed inodora, che si può sciogliere nell’acqua ed altri liquidi. Si ritiene che la più importante, per qualità, sia quella prodotta da diverse specie di Acacia del Nilo, ovvero quella che comunemente chiamiamo gomma ara- bica; ciò è in perfetto accordo con l’opinione degli antichi, dedotta dalle testimonianze di Plinio il Vecchio e Dioscoride, che però si riferivano per lo più a proprietà medicinali.
  Plinio il Vecchio, NATVRALIS·HISTORIA XIII 66. 67.:
  «66 (20) C’è accordo nel ritenere che la gomma migliore sia quella ricavata dall’Acacia Spinosa d’Egitto: dall’aspetto vermicolare, di colore giallo-verdastro, pura e senza fram- menti di corteccia, essa si appiccica ai denti. Il prezzo è di tre denari la libbra. Le gomme ricavate da mandorli amari e dal ciliegio sono inferiori; 67 la peggiore è quella dei prugni. Se ne forma una anche sulle viti, indicatissima per le piaghe dei bambini, e talvolta un’altra sugli olivi, buona per il mal di denti [...]»
  Dioscoride, riportato da M. Pietro Andrea Mattioli nei dis- corsi della materia medicinale, nel primo libro di Dioscoride:
  «Dell’Acacia.    Cap. CXIIII.
  L’ACACIA nasce in Egitto: & è un arbuscello spinoso, si folto di rami, che nõ si distende in alto [...] Della sua gomma quella è eccellente, che è rattratta in se, à modo di vermini, & che è trasparente, come il vetro, & non legnosa. Lodasi dopo questa, la bianca: ma quella, che è sordida, & simile alla ragia, è inutile [...]»
  è assai probabile che la più prescritta, per le composizioni degli inchiostri, fosse la gomma arabica, come sarà nel me-  


dioevo e nell’età moderna; ma è altrettanto probabile che an- che si usassero, in luogo di quella, gomme differenti per pro- venienza.
  Per esperienza si può dire che l’inchiostro antico, fatto con la ricetta di Dioscoride, produce un tratto nitido, bello e raffi- nato; pertanto deve risultare molto più viscoso degli inchio- stri attuali che noi conosciamo, infatti, se l’impasto solido vie- ne stemperato con una quantità d’acqua o aceto maggiore di quella necessaria allo scorrimento dal calamo, si può inge- nerare una formazione di grumi e lo scritto risulta di colore meno intenso. è importante notare che tale inchiostro, alme- no quello per cui si impiega aceto, secondo ciò che descrive Plinio, non si cancella agevolmente come molti potrebbero credere. Purtuttavia esistettero inchiostri facilmente cancel- labili, tanto che per questo era sufficiente passare una spugna bagnata sullo scritto; ciò trova giustificazione nell’impiego di una minore quantità di gomma, da cui il risultato di un nero più intenso su papiro e, d’altra parte, di una coesione più de- bole.
  Svetonio, nella “Vita dei Cesari”, libro secondo LXXXV:
  «[...] Iniziò [Augusto] con grande entusiasmo una tragedia; ma poi la distrusse perché non lo soddisfaceva lo stile; e quando gli amici gli chiesero come andava il suo Aiace, rispo- se che “il suo Aiace si era gettato sulla spugna” [Augusto, con un gioco di parole, disse che aveva cancellato la tragedia con la spugna, alludendo al suicidio di Aiace, che si gettò sulla propria spada.]»
  Nell’antichità erano anche conosciuti inchiostri invisibili; Filone di Bisanzio (280 - 220 a.C.), scienziato greco, disce- polo e successore di Ctesibio, nel suo trattato VETERES MATHEMATICI, descrive un inchiostro simpatico, ossia un estratto incolore di noci di galla, con cui si poteva scrivere; lo  


 
    
   
scritto diventava quasi nero quando il supporto veniva im- merso in una soluzione acquosa di sale di ferro. Tale liquido scrittorio può essere considerato il precursore dell’inchiostro ferro-gallico, che si generalizzerà nel medioevo.
  Altri inchiostri simpatici descritti da Plinio il Vecchio ed Ovidio:
  Plinio il Vecchio, NATVRALIS·HISTORIA XXVI 62.:
  «62 (39) Gli autori latini chiamano il Titimaglio erba da latte, altri, lattuga caprina, e raccontano che se col suo latte si tracciano lettere e se, quando il latte è seccato, vi si sparge cenere sopra, riappaiono i caratteri tracciati; perciò alcuni hanno preferito comunicare con le amanti in questo modo piuttosto che con bigliettini [...]»
  Ovidio, ARS·AMANDI III 627-630:
  «Un sistema sicuro per ingannare gli occhî è scrivere col latte, leggerai bene spargendovi polvere di carbone; un altro sistema è scrivere con un rametto verde ed umido di lino, la tavola parrà intatta e liscia; ma avrà segrete annotazioni.»


2. Inchiostro ferro-gallico medioevale

  A partire dalla tarda antichità, altre sostanze saranno ag- giunte al nerofumo nelle preparazioni degli inchiostri, cioè acido tannico, detto anche tannino, acido gallico e solfato di ferro; questo era chiamato dai Latini CHALCANTHVM, dal greco CHALCANTHON, oppure ATRAMENTVM·SVTORI- VM, cioè nero da calzolaio; nel medioevo si chiamerà Vitriolo Romano (distinzione dai vitrioli di altra provenienza) se non, più semplicemente, Vitriolo, come molte altre sostanze cri- stalline. Il tannino e l’acido gallico non potevano essere allora conosciuti come sostanze isolate; ma se ne conoscevano le  


fonti vegetali: galle, corteccia di quercia, foglie di sommacco, ecc., che erano utilizzate per conciare pelli; infatti si ha “tan- nino” da “tanno” dal francese “tan” dal basso latino “tan- num”: concia, ed “acido gallico” da “galla” (lat. class. GAL- LA): cecidio, dove fu scoperto nel secolo XVIII. Con il tras- correre del tempo, il nerofumo sarà gradualmente sostituito dalle sostanze suddette.
  Gli ingredienti principali, usati per la preparazione dell’in- chiostro, che nel basso medioevo sostituì affatto quello otte- nuto dal nerofumo, furono le galle di quercia o altre sostanze tannanti vegetali, il vitriolo, la gomma arabica ed un liquido portante: soprattutto vino bianco; ma anche acqua, birra o aceto. L’inchiostro tipico medioevale è quindi definito come inchiostro ferro-gallico, perché prodotto per lo più con galle e con il sale del ferro utile e preponderante che costituiva il vitriolo; ma alcuni preferiscono l’aggettivo metallo-gallico per considerare anche le tracce di impurità che il vitriolo naturale poteva presentare, ossia sali di metalli come rame, alluminio, zinco, magnesio o altri. La tabella a destra indica le percen- tuali dei sali metallici presenti nel Vitriolo Romano, estratto dalle miniere nei pressi di Tolfa in provincia di Roma, e nel Vitriolo Tedesco, proveniente dalla miniera di Rammelsberg vicino a Goslar, in Germania: tali valori furono ricavati da Krekel nel 1999, prendendo spunto da precedenti esperienze di Hickel nel 1963 (G. Banik, G. Kolbe, J. Wouters, Ana- lytical procedures to evaluate conservation treatments of iron gall ink corrosion, in “Conservation à l’ère numérique”, actes des quatrièmes journées internationales d’études de l’ARSAG: Association pour la Recherche Scientifique sur les Arts Graphiques, Parigi, 27-30 maggio 2002, pp. 205-217).
  In generale si prescriveva di mettere la gomma e le galle, precedentemente rotte, in infusione nel vino, cui si doveva  


 
    
   
aggiungere il vitriolo dopo alcuni giorni, durante i quali il liquido doveva essere spesso agitato; talvolta si indicava di far bollire alquanto il vino per facilitare l’estrazione del tan- nino e dell’acido gallico; in fine il prodotto doveva essere fil- trato.

Tabella dei sali metallici

  Il tannino e l’acido gallico, con il solfato di ferro, formano gallo-tannato ferroso, che, con l’ossidazione, passa a gallo- tannato ferrico precipitato, diventando nero. Tale composto è tenuto in sospensione nel liquido portante mediante la gom- ma, che pure ha la funzione di dare più corpo al liquido, impe- dendo in gran parte che esso si possa spandere sul supporto scrittorio per assorbimento; inoltre essa fa sì che il liquido  


scenda meno velocemente dal calamo o dalla penna, che il tratto risulti più definito ed il colore, più deciso. La reazione anzidetta, seppure non potesse essere osservata chimica- mente, era già conosciuta dai Greci e dai Romani nell’anti- chità classica: ne dà testimonianza Filone di Bisanzio (vedi quanto detto sugli inchiostri invisibili) e Plinio il Vecchio nella NATVRALIS·HISTORIA XXXIIII 112.:
  «112 Alcuni falsificano l’erugine [termine dell’antico italia- no, che continua il latino classico AERVGO, GINIS: acetato basico di rame se fatto per arte (meglio ancora AERVGO RASILIS), carbonato basico di rame se naturale, entrambi di colore verde], soprattutto quella di Rodi, con polvere di marmo, altri con pietra pomice o gomma. Il procedimento che inganna di più è la falsificazione con nero da calzolaio [...] Si scopre la frode anche mediante un papiro, fatto prima macera- re con galle, che diventa subito nero se lo si copre di erugine falsa [...]»: infatti il nero da calzolaio, cioè il solfato di ferro, reagisce con il tannino e l’acido gallico, estratti dalle galle per macerazione e presenti sul papiro.
  Le galle quercine, anche dette noci di galla o cecìdî, erano le sostanze vegetali più usate ed importanti per il loro alto contenuto di tannino ed acido gallico; esse sono escrescenze, ovvero rigonfiamenti lignei, che si sviluppano nei cauli per reazione a punture di insetti detti cìnipi, i quali introducono così le loro uova; le larve si impupano dentro le galle e la metamorfosi ha inizio. Le galle più interessanti sono due: una è piccola, sferica, ponderosa, crespa in superficie e più ricca di tannino, l’altra è molto più grande, sferica, leggera, liscia in superficie e meno ricca di tannino.
  Così descrive le galle Dioscoride (I sec. d.C.), con la dis- sertazione riportata da M. Pietro Andrea Mattioli nei discorsi della materia medicinale, nel primo libro di Dioscoride: «Del-  


 
    
   
le Galle.    Cap. CXXIIII.
  LA GALLA è frutto della quercia. di cui sono due spetie: una la quale chiamano omphacite, picciola, ma rugosa, come i nodi delle dita, salda, & non pertugiata: & l’altra liscia, leg- giera, & pertugiata. Lodasi per la migliore l’omphacite, impe- roche è la piu efficace [perché più ricca di tannino]. Hanno amendue uirtù grãdemente costrettiua [...]»
  Nello stesso capitolo il Mattioli scrive «LE GALLE sono notissime, & uolgari: & sono prodotte, secondo che dice Pli- nio, da tutte le piante, che producono le ghiande. Nascono quando il Sole esce del segno de Gemini: & quando son toc- che da troppo caldo, si seccano, & restano uane. Le quercie in Toscana producono oltre alle ghiande, anchora Galle di due sorti, maggiori cio è, & minori. Le maggiori son grosse come noci, leggiere, & fongose. Le minori son grosse come noccio- le, crespe, dure, & serrate: & son quelle, di cui è l’uso nelle tentorie, & appresso coloro, che conciano le cuoia, chiamate da i Greci propriamente omphacitidi [...]»
  L’enciclopedia Treccani riporta che le galle di Abruzzo e di Puglia, prodotte da querce varie, hanno un contenuto di tanni- no del 40%. La formula bruta dell’acido tannico è C14H14O11; l’acido gallico, che può essere già presente nelle galle, si forma in natura dalla scissione dell’acido tannico per azione di un enzima detto tannasi, la sua formula chimica è
C6H2(OH)3COOH·H2O.
  Il solfato di ferro, detto anche vetriolo verde o melanterite, si ritrova in natura con alcune impurità; attualmente può es- sere prodotto dall’industria praticamente puro e si presenta in cristalli umidiccî, attaccaticcî, di colore verde chiaro; se è cristallino, ha formula chimica FeSO4·7H2O; tenuto all’aria, è soggetto ad imbrunire per ossidazione e a perdere qualche molecola della propria acqua di cristallizzazione, a 100°C per-  


de sei molecole d’acqua, verso i 300°C perde l’ultima.   Plinio il Vecchio nel secolo I ed il Mattioli nel secolo XVI descrivono il solfato di ferro, senza distinguerlo però dal sol- fato di rame:
  Plinio il Vecchio, NATVRALIS·HISTORIA XXXIIII 123. 124. 125.:
  «123 Anche il nero da calzolaio ha ricevuto dai Greci un nome che denota la sua parentela con il nome del rame [Con- fusione tra solfato di ferro e solfato di rame]; infatti lo chiama- no CHALCANTHON [...] Lo si ricava, in Ispagna, da pozzi o stagni che lo contengono sciolto nell’acqua. Si fa bollire que- st’acqua, mescolata ad una pari quantità di acqua dolce, poi la si versa in bacini di legno. A traverse fissate sopra questi, sono sospese corde tenute tese da pietre, attaccandosi alle quali il limo suggerisce, in un certo modo, un’idea di grappolo d’uva con acini di cristallo. Lo si raccoglie e lo si fa seccare per trenta giorni. è di color ceruleo, di uno splendore vera- mente notevole, e si direbbe di cristallo; se lo si diluisce, di- viene il nero da calzolaio per tingere il cuoio.
  124 Lo si raccoglie in diversi altri modi: in un terreno che lo contiene, si scavano fosse dalle cui pareti grondano gocce che congelano con il freddo dell’inverno: lo chiamano STA- LAGMIAN e non c’è niente di più puro; quando è di un color violetto tendente al bianco, lo chiamano LONCHOTON.
  125 Lo si raccoglie anche nelle cavità delle rocce, in cui congela l’acqua piovana che trasporta il limo; lo si ottiene anche secondo il procedimento delle saline, facendo evapora- re sotto il sole più cocente le acque dolci ivi convogliate [...]»
  M. Pietro Andrea Mattioli nei discorsi della materia medi- cinale, nel quinto libro di Dioscoride, cap. LXXIII:
  «CHIAMASI il Chalcantho uolgarmente Vetriolo. Troua- sene in Italia di due sorti: uno cio è fatto dalla natura, chiama-  


 
    
   
to Copparosa, assai piu forte: & l’altro fatto per arte. Questo è piu forte, & manco forte, secondo le miniere, & i luoghi do- ue nasce. Ma ueramente si tiene, che’l Romano (quantunque sia piu smorto di colore) sia tra tutte le spetie dell’artificiale il piu ualoroso [...] Ma è però da sapere, che’l Vetriolo è una sustanza minerale, che ha assai similitudine con quella del- l’alume. è mordente al gusto, aspro, pungitiuo, & costrettiuo: & imperò pare à molti, che contenga in se proprietà di solfo, di ferro, & di rame, operatione d’alume, acutezza di sal nitro, & siccità di sale. Le caue della sua miniera, come son quelle di Massa città nella nostra maremma di Siena, & d’altri luoghi del nostro contado, son sempre quasi per la maggior parte in luoghi saluatichi in alcune ualli [...]»
  Il nome greco CHALCANTHON, donde il latino CHAL- CANTHVM, poteva indicare sia il solfato di ferro impuro sia il solfato di rame impuro, se non sali di altri metalli, come il nome generico Vitriolo, che si riferirà a molte sostanze di as- petto cristallino: per lo più solfati di metalli varî; infatti “Vitri- olo” continua il basso latino VITRìOLVM, simile all’aggetti- vo classico VITREOLVS, A, VM: di vetro. Il solfato di ferro ed il solfato di rame impuri si potevano distinguere però dal colore, odore, luogo di provenienza o sperimentazione: inve- ro il colore nero si poteva ottenere soltanto dalla combina- zione del solfato di ferro con acido tannico e/o acido gallico; il nome ATRAMENTVM·SVTORIVM: nero da calzolaio, è in- fatti giustificato dall’esito del contatto del solfato di ferro con la pelle precedentemente conciata con tannino. Nel medio- evo, il nome Vitriolo Romano, come pure il nome Vitriolo Tedesco, identifica il solfato di ferro impuro, il nome Vitriolo di Cipro identifica il solfato di rame impuro.
  Alcuni sostengono che, nelle composizioni degli inchiostri medioevali, potesse essere utilizzato il solfato di rame in luo-  


go del solfato di ferro; ma si sbagliano, perché il solfato di ra- me, insieme al tannino, non rende il nero, ma un colore simile a quello del rame, e ciò si può affermare per esperienza; tut- tavia la presenza di solfato di rame, in alcuni inchiostri, po- trebbe essere rilevata, mediante analisi chimica, come impu- rità del vetriolo, o come inutile componente parziale se in quantità notevole. Inoltre è da avvertire che se una soluzione acquosa di solfato di rame sperimenta il contatto con il ferro, si trasforma in soluzione di solfato di ferro, con consumo di ferro e produzione di rame precipitato, e non si può del tutto escludere che nel medioevo, oppure nell’antichità, il solfato di rame potesse essere così trattato quando ve ne fosse il bisogno; il Mattioli ci informa di tale trattamento nei discorsi della materia medicinale, nel quinto libro di Dioscoride, cap. LXXIII: «[...] poscia per ogni caldaia [contenente vetriolo] metton dentro una certa quantità di ferro, ouero di rame, quando lo uogliono fare di colore, & di bontà di tutta eccel- lenza [...]». La proprietà chimica suddetta potrebbe trarre in inganno coloro che volessero sperimentare l’inchiostro in cui il solfato di rame sostituisca affatto il vetriolo verde: se essi scrivessero con un pennino metallico, prodotto con una lega comprendente anche il ferro, otterrebbero un tratto nero, e potrebbero erroneamente dedurre che l’uso del solfato di ra- me, in luogo del solfato di ferro, conduca allo stesso risultato; ma il colore nero non si potrebbe ottenere se invece si scri- vesse con un calamo, con una penna d’oca, o con qualsiasi al- tro strumento la cui costituzione non comprenda il ferro, che sempre andrebbe a sostituirsi al rame presente nell’inchio- stro.
  La gomma era l’addensante generalmente indicato nelle ricette degli inchiostri, in particolare la gomma arabica era soventemente indicata per bontà superiore (vedi quanto det-  


 
    
   
to della gomma nel capitolo precedente); fa eccezione la ri- cetta del monaco Theophilus (vedi più avanti), dove non ne è prescritto l’uso.
  Il liquido più indicato, che doveva contenere la gomma e il gallo-tannato ferroso dopo il filtraggio, era il vino bianco. Il motivo per cui questo era preferito all’acqua si può dedurre per esperienza e per ragionamento: se si sperimenta l’uso del vino, si osserva che l’inchiostro risulta molto più aggra- ziato; esso scende dalla penna in modo più equilibrato: in quantità costante, e si ottiene un tratto più netto e definito, che si asciuga più velocemente; se invece si sperimenta l’uso dell’acqua, l’inchiostro risulta di consistenza più grossolana e si ottiene in generale un tratto meno fine, che si asciuga più lentamente. D’altra parte si può teoricamente dedurre che l’acidità fissa del vino, per lo più dovuta alla preponderante presenza di acido tartarico, insieme all’esigua acidità volatile, dovuta alla presenza di acido acetico, si opponga in parte al processo di ossidazione del gallo-tannato ferroso, il quale, finché non passa a gallo-tannato ferrico, rimane in soluzione. Da ciò consegue che la presenza del precipitato nero è sol- tanto parziale e più a lungo può rimanere tale; in questo stato, la sospensione, pur rimanendo imperfetta, risulta più duratura e la viscosità dell’inchiostro, non eccessiva. L’alcool conte- nuto nel vino, mediamente presente in ragione dell’11% del volume, diminuisce la tensione superficiale dell’inchiostro e rende possibile una più sottile discesa di questo dalla penna, a vantaggio della finezza e della nitidezza del tratto grafico. La presenza dell’alcool fa anche sì che lo scritto si asciughi più velocemente.
  L’inchiostro appare approssimativamente nero; ma pre- senta una nota violacea se è guardato in trasparenza; su carta o pergamena è nero, con una tendenza al marrone più o meno  


percepibile: ciò dipende dalle proporzioni degli ingredienti; può risultare più o meno lustro secondo la quantità di gomma presente. Col tempo, specialmente se uno scritto è riposto in ambiente umido, il tono marrone tende a prevalere; tale feno- meno può anche essere agevolato da una minore quantità di gomma oppure da una eccessiva presenza di solfato di ferro. Se l’inchiostro è a riposo per lungo tempo, tende a coagular- si, e una parte del pigmento tende a depositarsi nel fondo del recipiente, perché la sospensione dei precipitati, in tale siste- ma colloidale, non è perfettamente stabile. Lo stato liquido dell’inchiostro e la sospensione del pigmento si ristabiliscono mediante un’energica agitazione.
  La preparazione dell’inchiostro ferro-gallico è descritta in molte ricette, per lo più italiane, che risalgono al secolo XV e XVI; molte di queste hanno però origine anteriore, oppure provengono da altre ricette precedenti: infatti un documento datato, o databile, dimostra soltanto l’esistenza di una ricetta in una certo periodo storico; ma non può escludere una possibile origine anteriore. è molto importante considerare che le ricette, non solo quelle degli inchiostri, avevano una vita propria, passando da un documento all’altro nel corso del tempo anche per secoli; le ricette erano trascritte in conti- nuazione, seppure soventemente non venissero neanche spe- rimentate, oppure non dovessero essere di immediata utilità. La possibile collocazione temporale di una ricetta, anteriore a quella attestata, si può talvolta evincere da informazioni indi- rette, comparazioni con altre fonti analoghe, osservazioni sul- la stilistica ed altre deduzioni logiche.
  L’esistenza dell’inchiostro ferro-gallico, nel IIII-V secolo, è già testimoniata dal medico Marcello Empirico nel “De Me- dicamentis”, con la frase «gallas de quibus encaustum fit», e nel V secolo, Minneius Felix Martianus Capella, avvocato e  


 
    
   
scrittore latino di Cartagine, nel “De nuptiis Mercurii et Phi- lologiae”, scrive di un inchiostro ferro-gallico: «gallarum gummeosque commixtio».
  Importante è il precetto “De encausto”, nell’opera “Sche- dula diversarum artium”, risalente molto probabilmente al secolo XII, del monaco Theophilus (non si sa se tedesco o “lombardo”); questi indica il modo di ricavare il tannino dalla corteccia di biancospino, cui si dovrà aggiungere vino e solfa- to di ferro prima di scrivere.
  Un’altra ricetta importante si trova nel “Liber illuminista- rum pro fundamentis auri et coloribus ac consimilibus”, con- servato a Monaco di Baviera nella Staats bibliothek; il libro fu redatto nel 1500 circa; ma la ricetta potrebbe anche essere molto precedente; essa si presenta in un distico:
  «Integra sit galle [SIC], media sit uncia gummi
  vitrioli quarta. Apponas octo falerni.»
vale a dire un’oncia di galle, mezza di gomma, un quarto di vetriolo verde ed otto once di Falerno: vino celebratissimo dai Romani antichi, oppure noci di galla 12.5 parti, gomma 6.25, solfato di ferro 3.125, vino Falerno 100. Questi valori non si scostano molto da quelli che in genere si dovevano presentare nelle preparazioni degli inchiostri medioevali, ossia noci di galla intorno alle 10 parti, gomma arabica intorno a 6, solfato di ferro intorno a 3 in 100 parti di vino bianco. Si confronti il distico con la ricetta seguente, tratta dai “Notan- dissimi Secreti” di Giovan Ventura Rosetti, Venezia, 1555:
  «Questa è la partitione di fare inchiostro fino.
  Galla marmorigna lire [cioè libbre] 4. Gomma arabica lire 2. Vitriolo romano lire 1. Vin bianco lire 40. Et insieme incor- porate, et metteti al sole, o al fuoco come a voi pare.»; sono identiche le proporzioni tra galle, gomma e vetriolo; aumenta soltanto la quantità di vino bianco, per cui risultano 10 parti di  


galle, 5 di gomma arabica, 2.5 di solfato di ferro e 100 di vino bianco. Nel Manoscritto di Bologna del secolo XV (vedi “Il li- bro dei colori - segreti del secolo XV”, O. Cerrini e C. Ricci, Biblioteca universitaria di Bologna) si trova la seguente ricet- ta: «A fare inchiostro bono e da scrivare.
  Tolli uno bocale de vino bianco grande e bono, e once 4 de galla amachata bene, e una manciata de scorze de mele gra- nare seche, e una manciata de scorze de ornello fresco, raso cum lo cortello, e una manciata de scorze de noce fresche; poi tolli once 2 e mezo de gomarabico e mistica omne cosa in- siemi cum lo supra dicto vino e fa stare per 6 o 8 dì al sole e omne dì le mista 4 o 6 volte molto bene; poi ce pone doi once e mezo de vitriolo romano e mistalo spesso e stia coscì per alcuni dì. Poi el pone al foco a bullire per spatio d’uno mi- serere e lassalo fredare e poi lo cola e metilo doi dì al sole: e se ce mecti poi uno poco d’alumi de rocho, farallo più lustro assai e virà perfecto e bona intinta da scrivare.»
  Un’altra ricetta tratta dal “Libro di ricette medicinali” del secolo XV, Biblioteca Laurentiana di Firenze:
  «A far inchiostro da scrivere togli 24 libbre d’acqua piova- na, 2 libbre di galla pestata, riscalda insieme tanto che rientri per metà, poi cola in una stamegna e ritornala al fuoco e quan- do bolle metti dentro una libbra di gomma e levala dal fuoco e mettigli una libbra di vetriolo e mezzo bicchiere di vino, poi la metti al sereno e lascia stare quattro dì e quattro notti, poi cola e avrai buon inchiostro.»
  A partire dai secoli XVI e XVII, in Italia soprattutto, si fece uso di quantità maggiori di solfato di ferro con la convinzione di ottenere un nero più intenso; invece si otteneva soltanto una maggiore acidità dovuta al vetriolo in eccesso, da cui la nota corrosione della carta nel corso dei secoli. Inoltre dimi- nuì notevolmente il quantitativo di gomma, poiché serviva un  


 
    
   
inchiostro più fluido, che potesse scorrere più velocemente dalla penna, più adatto alle scritture corsive e veloci del- l’epoca. Una ricetta che testimonia questi cambiamenti si tro- va nel trattato del Mattioli: “I discorsi della materia medici- nale, nel primo libro di Dioscoride, cap. 124”, edito nel 1621 (la ricetta ancora non esisteva nel libro del 1557): «[...] Fassi delle Galle Omphaciti, Gomma, e Vino Inchiostro per scrive- re molto buono, in questo modo. Prendonsi di Galle rotte grossamente once cinque, di Vetriolo Romano once tre, di Gomma Arabica once due, & di sale una dramma, & mettesi il tutto insieme in vn boccale vetriato, & dipoi vi si gitta so- pra cinque libre di vino bianco grande ben caldo, & serrasi dipoi il vaso, & mettesi la state per quindici giorni continui al Sole, & il verno si mette dopo al forno della stufa, & ogni dì si mescola molto bene con vna bacchetta [...]»; quindi tale in- chiostro doveva essere preparato con 8.33 parti di galle, 5 di solfato di ferro, 3.33 di gomma arabica e 0.21 di cloruro di sodio (inutile) in 100 parti di vino bianco; la quantità indicata di solfato di ferro è ridondante: più del doppio di quella utile e necessaria; la quantità della gomma è notevolmente ridotta, per cui questo inchiostro è più fluido, più opaco e di colore nero molto intenso.
  L’inchiostro ferro-gallico fu usato per tutta l’età moderna ed oltre, esso si adattò bene ai nuovi strumenti scrittorî: il pennino metallico e la penna stilografica, distinguendosi in inchiostro ordinario ed inchiostro stilografico; con il progre- dire della chimica, fu affiancato da inchiostri di altra natura, come quelli a base di campeggio e di anilina, pratici ed econo- mici; ma fino alla fine degli anni 50, quando ancora non era diffusa la penna a sfera, continuò ad essere l’inchiostro più importante, perché più resistente degli altri ad azioni mecca- niche, all’acqua e alla luce.



3. Inchiostro ferro-gallico stilografico

  Nel secolo XVIIII, con l’avvento della penna stilografica, strumento scrittorio più complesso, gli inchiostri stilografici, diversamente dagli inchiostri correnti, dovranno avere oppor- tune caratteristiche, cioè dovranno essere molto più fluidi e privi di sostanze insolubili: le materie coloranti dovranno es- sere ben solute nel liquido di base e non formare precipitati dannosi al delicato meccanismo della penna.
  L’inchiostro ferro-gallico corrente, sospensione imperfetta del precipitato ferro-tannico e ferro-gallico, non si era potuto adattare alla penna stilografica finché non fu trovato il modo di tenere in soluzione il tannino, l’acido gallico ed il solfato di ferro, mediante un acido libero aggiunto (cloridrico, ossalico, ecc.): questo impediva la formazione del composto ferro-gal- lico, che doveva avvenire più tardi sulla carta scritta. Il liqui- do ottenuto in questo modo era limpido e quasi incolore; per renderlo visibile durante la scrittura, si impiegavano coloranti varî, come quelli blu di anilina, verdi, rossi, ecc. Quindi tale inchiostro si presentava con un certo colore nel momento in cui si scriveva, poi iniziava ad imbrunire quando si asciugava, perché veniva meno la presenza dell’acido libero per evapo- razione o per neutralizzazione con l’ammoniaca presente nella aria; l’imbrunimento continuava lentamente per ossidazione del gallo-tannato ferroso e lo scritto tendeva ad assumere il colore nero.
  Varie formule di inchiostri ferro-gallici stilografici si ritro- vano in ricettarî industriali della prima metà dello scorso se- colo, come ad esempio la seguente: «Tannino: 200g, acido gallico: 100g, glicerina a 28°Bé: 32g, acido ossalico: 8g, acido fenico: 7g, solfato o cloruro di ferro: 215g, acqua distillata: 8 litri. L’inchiostro così preparato deve essere lasciato stagio-  


 
    
   
nare con la massima cura per impedire che un eventuale de- posito di tannato di ferro ostruisca la penna stilografica. Per- ciò si decanta l’inchiostro dopo parecchio tempo di magaz- zinaggio e si abbellisce la parte limpida (8 litri) con 30-50 goc- ce di bleu per inchiostro extra, sciolto a parte in due litri di acqua bollente.»
  O. Schluttig e G. S. Neumann dedussero dai loro studî la formula che consigliarono per iscrivere documenti: la parte limpida era formata da tannino: 23.4g, acido gallico in cristalli: 7.7g, acido cloridrico: 2.5g, solfato ferroso in cristalli: 30g, gomma arabica: 10g, acido fenico: 1g, acqua distillata: 1000g.
  Questi inchiostri erano utilizzabili sia con pennino metallico sia con penna stilografica; questa esigeva però una buona scorrevolezza, per cui si poteva aggiungere al liquido una certa quantità di glicerina: in genere fino all’1%.
  Gli inchiostri ferro-gallici stilografici, in virtù delle proprie caratteristiche, si imposero sugli inchiostri adatti solo per pennini, e si trovarono in vendita fino alla metà del secolo XX; cadranno in disuso con l’avvento e la diffusione della penna a sfera, che affatto sostituirà il pennino metallico e in gran parte la penna stilografica.


4. Nomi dell’inchiostro

  I Latini dell’età classica e post-classica chiamarono l’in- chiostro per iscrivere ATRAMENTVM e, specialmente, A- TRAMENTVM·LIBRARIVM o ATRAMENTVM·SCRIPTO- RIVM, per distinguerlo dal nero delle pitture murali: ATRA- MENTVM·TECTORIVM, e da quello che serviva per tinge- re pelli: ATRAMENTVM·SVTORIVM, cioè nero da calzo- laio.



  Nella tarda antichità, ENCAVSTVM: fatto all’encausto, e questo dal greco ENKàUSTON: bruciato, fu il nome di un in- chiostro rosso usato nelle sottroscrizioni degli imperatori d’Oriente; nel medioevo si generalizzerà con lo stesso signi- ficato di ATRAMENTVM.
  Il nome ENCAVSTVM degenerò in INCAVSTVM, donde l’esito dell’antico italiano “Incosto” e dell’antico veneziano “Incostro”. L’esito italiano ultimo è “Inchiostro”; il francese, “Encre”; l’inglese, “Ink”. Lo spagnolo “Tinta” ed il tedesco “Tinte” derivano dal latino TINCTA, ORVM: plurale neutro del participio perfetto sostantivato TINCTVS, A, VM, del verbo TINGO, TINXI, TINCTVM, ERE: bagnare, impregna- re, tingere, colorire.


5. Strumenti per iscrivere

  Gli antichi Egiziani scrivevano sui rotoli di papiro con uno stelo sfilacciato del papiro stesso, che somigliava così ad un pennello; gli Assiri ed i Babilonesi usavano una canna oppor- tunamente tagliata, con cui imprimevano, prima della cottura, i segni della scrittura cuneiforme su tavolette di argilla fresca.
  Nell’antichità greco-romana, gli strumenti più diffusi ed im- portanti furono lo stilo ed il calamo.
  Lo stilo (lat. class. STILVS: corpo acuminato, stelo, fusto), chiamato dai Romani anche GRAPHIVM, serviva per iscrive- re su tavolette cerate; era formato da un’asta di osso, di avo- rio o di metallo, acuminata da una parte ed appiattita dall’altra a formare una spatola: con la parte appuntita si scriveva sulla cera per incisione, con la spatola si spianava di nuovo la cera per correggere o cancellare.
  Gli stili dei Romani più antichi furono generalmente di  


 
    
   
osso: Plinio il vecchio, nella NAT·HISTORIA XXXIIII 139., scrive «[...] Nel trattato che Porsenna, dopo la cacciata dei re, dette al popolo romano, troviamo la clausola esplicita di non usare il ferro se non in agricoltura. è allora che gli autori più antichi hanno tramandato che si instaurò l’uso di scrivere con uno stilo di osso [...]»
  Le tavolette cerate e lo stilo si useranno allo stesso modo dei Romani antichi fino al basso medioevo.
  Il calamo serviva per iscrivere su foglî o rotoli di papiro; era costituito da un tratto di canna sottile, che veniva tempe- rato con un apposito coltellino (SCALPRVM) in modo da formare una punta; questa si rendeva piatta, larga quanto il tratto grafico voluto, si assottigliava se neccessario e si divi- deva in due parti uguali con un taglio più o meno lungo, che serviva a conferire maggiore flessibilità e a facilitare la disce- sa dell’inchiostro: questo scendeva più velocemente sul papi- ro se il taglio era più lungo.
  La punta piatta del calamo, che sarà ugualmente riprodotta nella penna di volatile, caratterizzò l’aspetto delle grafie occi- dentali antiche e medioevali: i chiaroscuri grafici si formavano infatti secondo le diverse inclinazioni del tratto; ma con l’av- vento e la diffusione dei pennini metallici, che saranno gene- ralmente appuntiti, i chiaroscuri si formeranno soltanto con una variabile pressione durante la scrittura.
  Il calamo sarà utilizzato anche dopo che si sarà diffusa la penna d’oca, diventando però uno strumento di secondaria importanza, perché, a causa della propria natura legnosa, la sua punta si consuma più rapidamente che quella di una pen- na di uccello ed è più soggetta a rigonfiarsi per imbibizione; ciò è testimoniato anche da M. Pietro Andrea Mattioli (sec. XVI) nei discorsi della materia medicinale, nel primo libro di Dioscoride, cap. XCV:



  «[...] Quella [trattasi della canna], che s’adopera [si noti l’uso dell’indicativo presente...] per lo scriuere de libri, à cui hanno usurpato l’autorità le penne, si ritroua in assai luoghi, & è notissima in Italia [...]»
  Il nome calamo deriva dal latino classico CALAMVS, cor- rispondente al greco KàLAMOS; indicava la canna e in par- ticolare la parte più sottile del gambo, che era anche chiamata CANNA; un’accezione di CALAMVS era “strumento per is- crivere”. In Persio e Marziale, poeti satirici del I secolo d.C., il calamo è anche indicato con il nome HARVNDO, DINIS, f., che significava canna in generale. Il nome calamaio, con cui noi indichiamo il recipiente atto a contenere inchiostro ed in- tingere la penna, prima detto ATRAMENTARIVM, deriva da CALAMARIVS, aggettivo sostantivato con cui i Latini chia- mavano invece l’apposito recipiente per calami; questo era anche detto THECA·CALAMARIA.
  La penna di volatile (lat. class. PENNA) compare nel secolo IIII (Giorgio Cencetti, “Lineamenti di storia della scrittura latina”, 1954); ma la prima testimonianza dell’uso di tale strumento si ha nella prima metà del VII secolo, nell’o- pera “Origines”, VI, 13, di Isidoro di Siviglia.
  La penna diventerà lo strumento più importante, perché la sua punta, diversamente da quella del calamo, è meno sog- getta a corrompersi per attrito e per continuo contatto con lo inchiostro durante la scrittura: infatti il tratto grafico, prodot- to dalla penna, rimane molto più a lungo netto e definito.
  La penna più usata fu quella d’oca; ma talvolta si usarono anche penne di altri volatili: cigno, anatra, ecc.; essa non si presentava in genere come noi la immaginiamo, invero veni- va privata delle barbe, la cui presenza sarebbe stata soltanto di ostacolo nella pratica scrittoria; pare che la penna, tratta dall’ala destra dell’animale, fosse preferita.



 
    
   
  La punta della penna, come quella del calamo, doveva es- sere fatta con molta attenzione per regolare bene la discesa dell’inchiostro e perché il tratto risultasse della dimensione voluta; ciò corrispondeva ad un operazione ricorrente ed in- cresciosa, cui si tentò di ovviare con l’introduzione di stru- menti metallici, meno soggetti a deteriorarsi per usura.
  A parte alcuni calami metallici, costruiti dai Romani, i ten- tativi più notevoli di sostituire la penna d’oca con penne metalliche furono fatti a partire dagli ultimi anni del secolo XVIII; ma tali strumenti erano pesanti e troppo poco flessibili perché potessero competere con la penna di volatile, e ciò fi- no al 1830, quando l’inglese James Perry brevettò un inge- gnoso sistema, che rendeva flessibili i pennini metallici: esso consisteva nell’effettuare un foro alla fine della fessura della punta, oppure qualche taglio trasversale tra la fessura ed i margini esterni.
  In seguito all’invenzione del Perry, i pennini metallici si diffusero notevolmente, e poiché non servivano più le grafie librarie, assai statiche ed accurate, usate prima dell’avvento della stampa, la scrittura diventò veloce e le grafie, sottili; la punta piatta scomparve ed i pennini metallici acuminati, in- sieme alla penna stilografica, sostituirono quasi del tutto la penna di volatile.
  Accenni a rudimentali penne stilografiche si hanno dai pri- mi anni del secolo XVII fino all’inizio del XVIIII; ma ancora prima, Leonardo da Vinci inventò una penna, oggi ricostruita in base ai suoi disegni, che può essere considerata il prototi- po della penna stilografica, perché risulta ben funzionante e perché si può evincere, da alcuni studî fatti sui manoscritti dello stesso Leonardo, che questi, dopo averla costruita, se ne servì per iscrivere.
  Dall’inizio del secolo XVIIII, si susseguirono varî studî e  


brevetti; ma la penna stilografica, vista prima come un bene di lusso, inizierà a diffondersi soltanto a partire dai primi de- cenni del secolo XX. Diversamente dal pennino metallico e dalla penna a sfera, più pratica ed economica, la penna stilo- grafica non si volgarizzerà.
  Con l’avvento della penna a sfera, e con la sua diffusione, nel quinto decennio del secolo XX, si estinse anche quel po- co, che della calligrafia era rimasto.
  Oggi la penna a sfera è volgare e nota a tutti; ma non è a- datta alla scrittura in calligrafia, che è ormai effettuata da po- chi, quantunque sia apprezzata da molti.

  Nando Torelli



 
    
   
Indice

Inizio
1. Inchiostro antico
2. Inchiostro ferro-gallico medioevale
3. Inchiostro ferro-gallico stilografico
4. Nomi dell’inchiostro
5. Strumenti per iscrivere



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